IL SIMBOLISMO DI
E R I K



La trama del dramma è piuttosto lineare: Erik, valoroso aspirante al trono di Norvegia, dopo cinque anni di combattimenti riesce a farsi proclamare re. Ma lui non mira al potere personale: il suo obiettivo è di unificare il proprio paese, in modo da renderlo coeso, affinché l’unità possa essere duratura e sopravvivere dopo di lui. Per questo, oltre all’acume politico e diplomatico (che gli proviene dal dio Odino) e alla forza guerriera (instillatagli dal dio Thor), necessita di un terzo potere che, presto, riconosce nella forza dell’amore (rappresentata dalla dea Freya). Solo così, armonizzando questi tre poteri divini, seda la rivolta della dinastia dei Sigualdson, capeggiata dal principe ereditario Sven, coadiuvato dalla propria moglie Herta e dalla di lui sorella Aslaug, di cui Erik si innamorerà e che renderà sua regina, realizzando al meglio la propria missione.

Questa sublime drammaturgia cela un ricchissimo apparato simbolico.

A ben vedere, si possono trovare tre distinti (e perfettamente interconnessi) livelli di lettura.

Il primo è quello “romantico”: una meravigliosa storia d’amore tra una donna passionale e un uomo dal forte temperamento; lo sviluppo di questa vicenda amorosa si snoda su dinamiche caratteriali perfettamente verosimili, grazie al contesto storico-geografico in cui è stata inserita.

Il secondo livello è quello “politico-filosofico”: la conciliazione tra la saggezza, la forza e l’amore si rivela una necessità di perfezionamento, tanto nella sfera sociale (politica, nella fattispecie), quanto in ambito soggettivo (in vista di un ideale compimento dell’umana personalità). Nuovamente, il riferimento diretto alle tre principali divinità norrene — Odino, Thor e Freya — rende la contestualizzazione drammaturgica particolarmente riuscita e calzante.

Il terzo livello — il più nascosto e, per certi versi, il più importante — è per l’appunto quello che possiamo definire “simbolico”.

La poesia di Sri Aurobindo è troppo raffinata per scadere nel genere didascalico, ma se si legge la vicenda amorosa di Erik e Aslaug con la giusta introspezione, si scoprirà presto che è la trasposizione poetico-teatrale della relazione intercorrente tra il Divino e l’anima umana. Tutti i dettagli sono presenti per renderlo palese, oltretutto con un trasporto, un realismo, una luminosità talmente vivida e concreta, da restare ancora una volta ammirati e folgorati dall’ineguagliabile genio poetico di Sri Aurobindo.

Inizialmente, tutti i personaggi principali — Erik, Aslaug, Herta, Sven — appaiono spinti da ambizioni personali meramente egoiche. Tuttavia, a mano a mano che si procede nello svolgimento narrativo (e, parallelamente, nello sviluppo della tessitura psicologica dei personaggi stessi), si intuisce in modo sempre più evidente che ciascuno di essi, in realtà, è un simbolo rappresentativo — o, per lo meno, lo strumento di poteri più vasti rispetto alla piccola personalità individuale di facciata.

La caratterizzazione di Erik, in tal senso, appare particolarmente emblematica e suasiva. Al principio, egli ricorda infatti l’immagine antropomorfa che le religioni popolari hanno costruito di Dio: un essere severo, dispotico, violento, intransigente, vendicativo, geloso e parziale. Per poi condurci, passo passo, alla comprensione che non è affatto così e che, anzi, ci troviamo al cospetto di un essere che fin dall’inizio trama un complesso intreccio di eventi — interiori ed esteriori — per portare ciascuno (perfino quanti appaiono inizialmente suoi avversari) al più completo e gioioso compimento. Il coup de théâtre finale svela in modo meraviglioso proprio la lungimiranza e la perfezione di tale meticolosa, sublime tessitura.

Gli stessi nomi scelti per i personaggi principali sono alquanto espliciti.

Nel caso di Erik, si tratta di due parole composte: tale nome di persona è formato da ei e ríkr, che in antico norreno significa “l’eterno Sovrano”, mentre Aslaug deriva da áss e laug, traducibile come “l’amata divina” o, con maggiore precisione, la “congiunta” (laug) del “Divino” (áss).

In questo dramma lirico, in realtà, non si ravvisa un solo dettaglio da cui non traspaia il “simbolismo” VIVO, palpitante dietro ogni singolo verso (di esemplare bellezza, peraltro: il ritmo poetico è magicamente avvincente e la musicalità è semplicemente perfetta), teso a rievocare il lungo rapporto di approccio e di reciproco amore tra l’anima e il Divino (con tutte le esitazioni iniziali da parte dell’anima umana nei confronti di un Divino di cui non comprende il modus operandi, attratta e al tempo stesso sgomenta da una tale foga amorosa da parte di Colui che è indisposto a reclamare nulla di meno di una unione completa, estasiante, perfetta, conducente cioè a quella totale fusione beatifica che è già la realtà essenziale soggiacente a ciascuna anima individuale) e che non vi sia nulla messo lì per caso, o per soddisfare esigenze puramente esornative: tutto è architettato con una precisione millimetrica per rappresentare l’eterna avventura dell’anima.

Immergendosi nel dramma forniti di questa chiave interpretativa, si trova una tale quantità di corrispondenze con il proprio percorso interiore, da rimanere sbalorditi per una tale aderenza a quelli che possiamo a giusto titolo chiamare i fatti concreti dell’anima!

Tutti i personaggi principali (non solo dunque Erik e Aslaug) hanno chiare connotazioni simboliche.

Herta, in particolare, rappresenta la Natura materiale. Esattamente come per gli altri due personaggi, il senso simbolico è esplicito fin dal suo nome, direttamente collegato al dio norreno del mare Njördr (il mare, per i vichinghi, era il maggiore dispensatore di prosperità — e il dio corrispondente era infatti protettore dei pescatori e dei marinai); Tacito, il quale fu il primo scrittore romano a citare tale dio, lo rese in latino come Nerthus, ma una errata lettura della N lo rese Herthus, da cui per l’appunto derivò Hertha, diventato il nome della dea germanica della fertilità, Madre Terra o Madre Natura. Hertha costituisce quel particolare aspetto di Madre Natura che opera nascostamente per aiutare l’anima umana a unirsi al Divino.

Anche quando non si comprendono i suoi intenti (al punto da apparirci casuali), oppure addirittura quando sembra complottare per la nostra disfatta, in realtà essa lastrica per noi la strada più completa (che raramente è la più semplice o la più diretta!) per arrivare infine a una unione dettagliata e ricca al di là di ogni immaginazione.

Sven, in antico norreno (sveinn), significa “ragazzo”… Costituisce qui il tipico rappresentante dell’attuale umanità, la quale si trova in una fase adolescenziale, non avendo ancora raggiunto una compiuta maturità umana, ovvero la piena consapevolezza del proprio essere, se non in qualche singolo e raro individuo (non a caso, il Ṛgveda indica l’essere umano come «l’infante di un anno»… Ma dai primordi vedici a oggi l’umanità è un poco cresciuta, si spera — ora è giunta in fase adolescenziale, per l’appunto, con tutte le intemperanze tipiche della prima gioventù!). Nel suo insieme, l’umanità è composta per lo più da esseri centrati su quella che Sri Aurobindo chiama “la personalità frontale”, e sono pertanto interessati a cercare di affermare il proprio ego nel mondo circostante. Nulla a che vedere con colorazioni moraliste che vorrebbero addebitare tale comportamento a una qualche cattiveria congenita o imposta, o per una qualche insita malvagità dell’uomo: si tratta di un bisogno per così dire naturale di espansione e di crescita, che ciascuno porta dentro di sé. A un certo punto, tuttavia, diventa necessario comprendere (nella prassi della vita, soprattutto, e non soltanto a livello teorico e mentale) che l’ego non è il vero sé, ma la sua ombra deformata nell’ignoranza, ragion per cui occorre trascenderlo, in modo da compiersi in una reale (e regale!) conoscenza-di-sé.

Per tornare al nostro dramma, Erik sprona con ogni mezzo Sven a comprendere la necessità di tale spoliazione che, nella realtà delle cose, si rivela una assunzione della vera dimensione interiore da parte di ciascun essere individuato, con tutte le conseguenze pratiche (anche esteriori) che ne derivano… Solo così, il singolo può diventare un reale in-dividuo, integrato e completo, scoprendo e ricoprendo il suo giusto ruolo nel gioco cosmico, godendo concretamente di quell’unità beatifica che è la base segreta di tutto.

Sven rappresenta, in definitiva, ciò che Sri Aurobindo definisce “l’animo-di- desiderio” che, nell’essere umano, vela e deforma la vera anima, la pura psüché. Non a caso, Aslaug è la sorella di Sven, e sarà lei, alla fine, a essere posta sul trono che suo fratello aveva preteso di occupare! Tuttavia, Sven non avrà affatto una sorte ingloriosa: nell’economia della natura, una volta superato il proprio obnubilamento, esso pure è destinato ad assurgere alla propria verità e, per conseguenza diretta, alla sua giusta posizione nel mondo.

Il divino Erik, in ultimo, giunge a creare l’unità del proprio regno, riuscendo a conquistare il cuore del suo più acerrimo nemico. Il duplice ideale vedico prevedeva la conquista di sé (sva-rāja) unitamente alla conquista del mondo circostante (sam-rāja). Nel senso più allargato possibile, l’Essere supremo armonizza infine tutti gli apparenti opposti presenti nel proprio eterno Divenire fenomenico, grazie al potere dell’amore.

Sri Aurobindo sembra dirci, attraverso quest’opera (in piena aderenza con l’intera sua esperienza di vita), che il destino del mondo si rivelerà superiore a ogni umana aspettativa, poiché il “monarca universale” intende cedere il proprio trono all’anima-della-terra, la quale per lungo tempo ha temuto di essere scalzata per mano di un Demiurgo usurpatore e tirannico, da cui si sentiva spaventata e attratta al tempo stesso.

Ne consegue che, in modo diametralmente opposto a quanto viene attribuito al Dio antropomorfo delle religioni, rigorosamente extra-cosmico, che avrebbe “creato” il mondo ex-nihilo, con l’assurdo proposito di farne una valle di lacrime affinché le sue creature potessero espiare chissà quali peccati (si veda a tal proposito la mordace invettiva di Bonvesin de la Riva nella sua lirica intitolata Disputatio de Sathana cum Virgine, in cui il Diavolo dice di essere semplicemente uno dei tanti attori di questa grandiosa messinscena universale, espressamente voluto da quel divino Regista che, nel proprio paradiso, attorniato da cherubini cantanti in eterno le sue lodi, si annoiava talmente da avvertire la necessità di creare un potere antagonista da combattere, per cercare in tal modo di trovare un rimedio a un simile inguaribile tedio!), il VERO Divino ha tratto l’intero universo dal suo stesso Essere, ed è Lui stesso che fa emergere gradualmente i propri infiniti poteri di coscienza nell’infinita manifestazione cosmica. L’Assoluto non è una entità astratta, altra da un “relativo” condannato in eterno alla precarietà e al dolore: è egli stesso nel cuore della materia — anzi, è lui stesso che, con una parte di Sé, si è involuto nel fenomeno! Essere e Divenire sono i due aspetti complementari e paralleli — uno per l’appunto essenziale, l’altro effettuale — di una sola Realtà, unica e inscindibile.

Ultima curiosità: probabilmente è un puro caso, ma è quanto meno singolare notare come il primo Eiríkr (Erik) mitologico di cui si tramanda nella tradizione nordica, venga fatto discendere da un certo “re Agni”! Non dobbiamo infatti dimenticare che la tradizione norrena è uno dei tanti rigogliosissimi rami dell’unico grande albero indoeuropeo: il tronco è comune a tutte le tradizioni, a partire dalle radici vediche, e comprende in sé le culture indiana, greca, latina, celtica, germaniche (norrena compresa), ugro-finnica, persiana, baltico-slava e altre ancora. E questo è, precisamente, un altro dei temi ricorrenti nell’Opera di Sri Aurobindo: riunire insieme la grande famiglia euroasiatica, attualmente ancora lacerata in due — da una parte, viene esaltato il sedicente pragmatismo europeo (oggi giunto al culmine della sua hybris, con l’abbaglio di uno scientismo che sta avvilendo il mondo intero), dall’altra è stato esacerbato un atteggiamento volto in modo esclusivo verso una trascendenza statica e avulsa dalla vita, rendendo gli orientali sempre più ripiegati sul proprio ombelico (il che li ha condotti a un disastroso fatalismo da cui adesso tentano a fatica di uscire, il più delle volte limitandosi a scopiazzare i disvalori della società dei consumi). Tale frattura ha avuto anch’essa una sua utilità e una giustificazione intrinseca (settorializzare al fine di elaborare sin nei più minuti dettagli ogni singolo aspetto dell’esistente, per poi tornare all’unità arricchiti da tale opera analitica), tuttavia è giunta l’ora, giustappunto, di colmare lo iato creato tra Odisseo e Buddha e di recuperare le vere scaturigini della nostra grande civiltà indoeuropea.


Tommaso Iorco



Dizionarietto della tradizione norrena