ERIK
OPERA TEATRALE IN CINQUE ATTI



«Erik è incentrato su quel particolare ramo della tradizione euroasiatica fiorito nel fascinoso mondo delle saghe norvegesi. Il dramma si situa all’inizio dell’unificazione del regno di Norvegia, ovvero tra la fine del IX secolo e l’inizio del X dell’era moderna. Per questo il re Erik, nei versi di apertura dell’opera, sostiene di essere il primo unificatore del paese.

Non sappiamo da quale fonte precisa Sri Aurobindo attinse il materiale drammaturgico; è probabile che abbia letto, in latino e in volgare (tedesco e inglese), le varie saghe consacrate ai re islandesi-norvegesi. Nessuna di tali narrazioni, ovviamente, può svelarci il segreto della bellezza di questo dramma lirico: come di consueto, Sri Aurobindo trascende le fonti scritte e trae ispirazione da sorgenti più profonde.

Storicamente, di tutti gli Erik che hanno regnato in Norvegia (o in Danimarca e in Svezia) nessuno corrisponde al modello del protagonista della presente opera drammaturgica. Peraltro, la vivida caratterizzazione del personaggio mostra le fattezze di un uomo completo, una sorta di eroe ideale piuttosto che un personaggio storico.

Il soffio di quello che potremmo definire “lo spirito normanno” permea per intero il testo teatrale, mettendone in luce tutta la fierezza, l’audacia, l’orgoglio, ma anche la curiosità, la versatilità e l’apertura al nuovo, caratteristiche che permisero loro di occupare territorî europei fra loro eterogenei. Dotati d’intelligenza acuta e di grande coraggio, robusti, intraprendenti, avidi di guadagno e di dominio, prodighi e nel contempo parsimoniosi: così apparvero questi popoli a chi li conobbe.

Originariamente, i normanni erano un misto di popolazioni della Scandinavia, insediati in Danimarca, Norvegia e Svezia. Essi erano di origine germanica, dotati di una propria cultura e abituati a navigare, anche se la maggior parte di essi erano contadini. Sono conosciuti anche con il nome di vichinghi, benché questo termine indichi più propriamente le popolazioni normanne stanziate sulle coste, dedite alla pirateria e responsabili di coraggiose imprese in mare fra l’VIII e il XII secolo: con le loro lunghe barche (sulla cui prua era intagliata la testa di un dragone e per ciò dette drakkar) batterono le coste della Francia, dell’Inghilterra, della penisola Iberica, dell’Italia e delle isole del Mediterraneo occidentale. A questo periodo della storia europea (convenzionalmente racchiuso fra il 793 e il 1066) ci si riferisce normalmente con l’appellativo di epoca vichinga. Ma grazie alla loro abilità di navigatori si spinsero ben oltre i confini europei: recenti scavi archeologici suffragano l’ipotesi che i vichinghi di Erik il Rosso sbarcarono — qualcosa come cinque secoli prima di Cristoforo Colombo — sulle coste canadesi dell’isola di Terranova, dove è stato rinvenuto un loro insediamento. Nello stesso periodo raggiunsero pure la Groenlandia (nel 986). Alcuni ritrovamenti archeologici sembrano mostrare che i vichinghi abbiano raggiunto pure la città di Baghdad, sebbene l’insediamento di colonie in Medio Oriente non ebbe la medesima fortuna conosciuta in Europa, a causa del forte potere delle dinastie degli omayyadi e degli abbasidi.

Nonostante la notevole espansione, i normanni si consideravano un unico popolo, il cui livello di civiltà è ormai ampiamente riconosciuto dagli studiosi; e, a dispetto dell’immagine stereotipata di feroci saccheggiatori, possedevano una solida organizzazione sociale basata sulla reciprocità, a livello sociale e politico come pure sotto il profilo culturale. Esaminati nel contesto storico in cui vissero, i normanni non appaiono affatto quei selvaggi che solitamente vengono considerati; le popolazioni anglosassoni li definivano “eccessivamente puliti”, mentre le loro imprese belliche, se confrontate ad azioni come quelle di Carlo Magno (che in un solo giorno fece decapitare 4.500 sassoni per il semplice fatto che non accettarono di convertirsi al cristianesimo), appaiono molto meno sanguinarie di quanto convenzionalmente ritenuto.

La letteratura normanna venne perlopiù trasmessa oralmente e le nostre conoscenze al riguardo sono principalmente basate su testi medioevali compilati successivamente all’introduzione del cristianesimo, quando alcuni eruditi hanno recuperato e messo su carta frammenti più o meno corposi di quella grande tradizione orale, dando vita alle magnifiche saghe nordiche — in particolare le due versioni dell’Edda: l’Edda antica (o Edda poetica) e l’Edda di Snorri.

La tradizione germanica pone Odino (Óþinn, Othinu nell’antico islandese, Wotan in tedesco), signore della tempesta, quale dio della saggezza (egli detiene le sacre rune), della poesia (è il signore degli ‘scaldi’, i compositori delle leggende norvegesi e islandesi medioevali) e della vittoria in battaglia; in quanto “padre dei morti” o Walvater, egli accoglie nel paradiso del Walhalla lo spirito dei guerrieri caduti valorosamente in battaglia. Suo figlio, Thor (Þórr), è il dio del tuono e della guerra: con un furore più acceso di quello del padre, presiede ai combattimenti e, con l’aiuto di un’arma magica (opera del nano Sindri), il martello Mjöllnir (Mjǫllnir, che torna sempre nelle sue mani dopo essere stato lanciato), compie imprese eroiche — ma questo stesso martello, rivolto al genere umano, potrebbe essere utilizzato come uno scalpello per cesellare e perfezionare l’umanità.

Accanto a queste due divinità maschili, rappresentanti la Saggezza e la Forza, nella tradizione nordica esiste una divinità femminile che personifica l’Amore: è Freya (Fręyia), la Grande Dea (suo giorno sacro era il venerdì, che da lei prese il nome: tedesco Freitag, norvegese Fredag, inglese Friday). E il presente dramma verte proprio sulla necessità di coniugare insieme questi tre poteri divini — Saggezza, Forza, Amore — da parte del protagonista.

Talmente importanti dovevano essere queste tre divinità che, sebbene le popolazioni germaniche raramente costruirono dei templi (al pari dei Celti, i loro riti venivano celebrati in boschi sacri), Adamo di Brema testimonia l’esistenza di un tempio normanno a Uppsala con tre statue di legno raffiguranti Odino, Thor e Freya.

L’oggetto distintivo più famoso della Dea Freya era la collana Brising, donatale dai nani; non a caso, nel testo poetico di Sri Aurobindo, è proprio una collana il primo gioiello che il re Erik dona a Aslaugh, mentre sarà con “l’anello di Freya” che egli cercherà di suggellare la loro unione.

La vicenda drammaturgica prende inizio dalla decisione di Erik di consultare due artiste erranti. Frequente era, presso i normanni, il ricorso agli oracoli per conoscere il proprio destino, così come assai coltivata era l’astrologia. Per mettere la forza degli spiriti al servizio dell’uomo veniva utilizzata la magia, arte esercitata soprattutto da donne-veggenti (le vǫlva, “portatrici di bacchetta”, poiché divinavano tenendo in mano la magica bacchetta volr). La figura della profetessa come annunciatrice del dramma del mondo trova riscontro nel ruolo mitico della donna normanna in quanto principale portatrice dei decreti divini. Ed è proprio questa caratteristica che Sri Aurobindo lascia trasparire attraverso le parole del canto iniziale di Hertha e Aslaug, accolte dal re Erik come rivelatorie e indicatrici dell’opera che lo attende.

L’origine e il destino del mondo attraevano particolarmente i normanni. Nell’Edda antica, redatta nella sua forma scritta nel XIII secolo (ma, come si diceva, formatasi in Norvegia in epoche di gran lunga anteriori) per mano di un anonimo islandese e comprendente ventinove poemi, frammenti di poesie con saghe delle divinità e degli eroi e poesie gnomiche, trova spazio la celebre Vǫluspá (in norreno antico, “La Profezia della Veggente”): il dio Odino, sempre alla ricerca di nuova conoscenza, evoca lo spirito di una vǫlva perché gli riveli il passato e il futuro: pur riluttante, lo spirito cede alla richiesta e, dopo avere rivelato tutti i segreti del passato e del futuro (compresa la fine dei tempi), sprofonda nuovamente nelle tenebre della morte.

Il dramma lirico di Sri Aurobindo si conclude proprio con un accenno alla fine dei tempi, quando — secondo la tradizione normanna — avrà luogo il “crepuscolo degli dèi” (il mitico Ragnarǫk) mediante la battaglia fra le divinità e le forze del caos e la conseguente catastrofe cosmica. Ma, essendo i normanni appartenenti al ceppo indoeuropeo, condividevano la comune concezione della ciclicità dello spazio e del tempo di tutti i popoli euroasiatici: dopo lo sfacelo del mondo e degli dèi — cantavano gli antichi vati germani —, emergerà dalle acque una nuova terra e Baldr (il dio della luce) resusciterà insieme al suo fratello gemello Hodur ritornando dallo Hel, il regno dei morti, recando lo splendore di una nuova creazione.

In ogni caso, l’azione scenica creata da Sri Aurobindo non si dilunga su simili narrazioni, ma le utilizza incidentalmente, mediante un fitto apparato di sottili e scintillanti allusioni, al fine di arricchire ulteriormente la tessitura drammaturgica senza mai appesantire la vivacità e la forza teatrale dei dialoghi. Se ci siamo brevemente soffermati su alcuni di questi particolari, mostrandone il preciso collegamento con la tradizione normanna, è solo per stimolare nel fruitore di quest’opera poetica livelli di lettura il più possibile completi e organici.»

T. Iorco (introduzione alla traduzione di Erik).




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